In attesa di conoscere le evoluzioni della vicenda legata al passaggio di casacca (dall’Inter alla Roma) di Nicolas Burdisso e in concomitanza con l’arrivo nella Capitale del fratello Guillermo, Il Corriere dello Sport tenta un excursus dei consanguinei che avevano già militato in giallorosso. Ma i casi individuati non sono poi molti. Testuale:
Se i fratelli Burdisso giocheranno nella Roma, sarà un fatto assolutamente nuovo nella storia della società. Vicende di fratelli ce ne sono poche in maglia giallorossa. Forse perché dopo la pessima riuscita di Romolo e Remo nel saper fare squadra, nessuno più aveva tentato l’azzardo di mettere insieme due protagonisti dello stesso sangue. C’è stato un tentativo con i fratelli Nordahl, ma schierandoli in campo in tempi diversi. Ci sono poi stati i fratelli Pellegrini, ma solo uno dei due ha giocato in serie A, mentre l’altro figurava nella squadra Primavera.
C’è stata infine la vicenda dei fratelli Conti, figli di Bruno, ma l’esperienza in giallorosso di Daniele e di Andrea, offuscata da cotanto padre, non ha mai avuto futuro.
L’esempio più vistoso resta quello dei due svedesi Knut e Gunnar, giunti alla Roma in epoche travagliate e sofferte. Andai a veder giocare Knut Nordahl una sessantina di anni or sono allo Stadio Nazionale e raccontai ai miei compagni di scuola di aver visto un campione. Non volevo dare un dispiacere ai tanti, che sulla scia del successo di Green, Liedholm e Gunnar Nordahl nel Milan, si attendeva no sfracelli dai tre svedesi acquistati dalla Roma: il laterale di centrocampo Andersson, l’attaccante di fascia Sundqvist e appunto Knut Nordahl, fratello maggiore del centravanti rossonero, altissimo e segaligno difensore centrale della nazionale svedese e stella di prima grandezza del calcio scandinavo. Fu quello lo sforzo più impone te sostenuto dalla Roma del dopoguerra per evitare la retrocessione e fece il giro del mondo la storia dei tre giocatori, che dopo aver visto da vicino la squadra che erano stati chiamati a salvare, decisero di pregare tutte le sere il Signore perché evitasse alla Roma quella probabile jattura. La Roma infatti retrocesse, nonostante gli svedesi e le loro ferventi preghiere, ma Knut Nordahl, da autentico signore qual’era, aveva lasciato un buon ricordo di sé al punto che la Roma, qualche anno dopo, volle ingaggiare anche il fratello Gunnar, detto ‘ il bisonte’ o ‘ gigante buono’. In realtà non era un gigante. Suo fratello Knut, che gli aveva fatto da maestro, era molto più alto di lui. Gunnar aveva la figura di un tozzo sollevatore di pesi (si allenava infatti correndo attorno al campo con un sacco di sabbia sulle spalle), ma aveva due bazooka al posto dei piedi e musco li delle cosce minacciosi come nuvole temporalesche. Knut toccava meglio la palla e vedeva il gioco con maggiore lucidità, ma c’era posto per un solo idolo in famiglia e questo idolo non poteva che essere Gunnar, la cui fama di cannoniere per oltre un decennio fu impareggiabile. La generazione che amò Gunnar Nordahl era quella che nell’infanzia aveva passato le notti a leggere le storie di Carnera, di Ursus nel ‘ Quo Vadis’, di Maciste e di Tarzan. E’ grazie a questi eroi muscolari se il Pompiere svedese conobbe la facile gloria degli stadi. La sua vicenda giallorossa fu solo un tentativo di adattarne il mito, ormai appassito, alle esigenze di una squadra che veniva improvvisata ogni anno, senza un programma, senza una strategia. E come il fratello Knut, Gunnar si rivelò un uomo vero, semplice, schietto e buono, arrivando anche a fare l’allenatore della Roma e sempre con qualche dichiarato rimorso per aver usurpato la gloria che tecnicamente spettava di diritto al fratello più grande.