Claudio Ranieri sulla panchina giallorossa, Daniele De Rossi capitano, Edy Reja tecnico biancoceleste. Come lo giri giri, il derby degli ultim itempi, se ne evince almeno un dato incontrovertibile. Uno dei tre binomi porta senz’altro bene. Alla Roma. Che inanella il quarto successo consecutivo – a chi lo avesse scordato, ha rinfrescato la memoria capitan Futuro con quel poker di dita sollevate verso il cielo vestito a notte a fine gara – e approda ai quarti di coppa Italia dove sfiderà la Juventus. Si giocherà all’Olimpico solo che, vattelapesca per quale intricata elugubrazione partorita dalle menti degli scienziati che maneggiano i regolamenti, non è quello capitolino, semmai l’altro. In casa di Aquilani, per intendersi. A bomba: per il tecnico testaccino è il quarto successo su quattro incontri, a conti fatti Ranieri vanta il 100 per cento di successi contro la Lazio. A memoria, nessun’altro come lui. Per De Rossi è l’ennesima vittoria in una stracittadina, anche per lui en plein, con la fascia da capitano intorno al braccio. Come dire: capitan Futuro, qualche batosta dalle Aquile, l’ha pure incassata. Ma capitan Presente, finora, mai. Poi, guai a dimenticarlo, Edy Reja: mai vinto un derby, finora. Sarà merito suo? In mancanza di cognizione certificata, sempre meglio ricordare a Lotito quanto di buono il friulano stia facendo in campionato. Sai mai. Ancora: lo dicono i numeri, ed è incontrovertibile, lo ribadisce qualche spavaldo – e messa così diventa fastidioso – che senza Totti in campo, la Roma continua a vantare una striscia utile. Col 10 fuori causa, i giallorossi non hanno mai perso per mano dei rivali acerrimi. Passi ciascuna opinione, ma – buttata lì – potrebbe forse essere dovuto al fatto che un colosso intramontabile come il 10 giallorosso, di stracittadine, ne ha giocate 32 per mancare in soli 8 confronti? Se è vero che i dati e le cifre non mentono mai e altrettanto vero che insegnano – sono le basi della statistica – che un paragone numerico simile non ha alcun fondamento.
La goduria del campo, le istantanee di giubilo, il bagno di esultanza in mezzo al tifo sano – che nulla ha a che vedere con il solito scempio dei soliti quattro, cinque colpevolmente ignoranti – sono consacrazioni ripetititive e mai uguali a se stesse. Ogni derby è storia a sè. Ma qualche volta, conta più di altre. Non era campionato ma coppa in una fase delicata della stagione. Non solo per la tipologia della sfida – confronto secco, dentro o fuori – ma anche per l’impatto psicologico che il risultato avrebbe determinato. Che i giallorossi vivano un periodo delicato è cosa risaputa: i risultati spesso avrebbero potuto mascherare se solo non vi fossero state polemiche roventi, discussioni mai private, scazzi che Ranieri ha tentato di minimizzare. Ma se due indizi fanno una prova – Pizarro, poi Totti – una casistica di almeno tre segnali – perchè c’è anche Vucinic – che diventa? Ranieri sembra aver perso il controllo dello spogliatoio e, nonostante ciò, prima di oggi era sembrato lucido almeno nel momento di schierare l’undici titolare. Stavolta, invece, la Roma del primo tempo ha subito per buona parte della frazione: centrocampo sfilacciato, attacco estraniato dalla manovra. Adraino e Greco per Vucinic e Menez non hanno convinto. Al punto che la ripresa ha stravolto più di una delle impressioni dei 45′ precedenti. Capire per davvero quel che passa nella mente del testaccino sta diventando un’impresona: si fatica a comprendere il senso di questo eccessivo turn over che mette in discussione non tanto la cornice del quadro, semmai l’ossatura della squadra. Che continua a giocare male, a non convincere se non dal punto di vista caratteriale. Un dato su tutti: non fosse per la retroguardia, quando sa difendere gli spazi senza subire gol, partite come quella di Cesena e l’ultimo derby avrebbero potuto avere altra storia. Quel che Juan disfa (a Genova), tanto per essere concreti, Burdisso (a Cesena) e Mexes (in coppa) fanno. Per cuore e generosità, voti alti a parecchi; per capacità di costruire gioco, c’è latitanza in mediana e in attacco. Manca, o si stenta a vedere, l’intervento di una cabina di regia. A meno che Ranieri non abbia deciso che le armi vincente di questa squadra sono carattere e caparbietà. Da mettere prima di tutto il resto, a tal punto spiccate da riuscire a vincere facendo a meno della manovra corale. Ma così, per un club che vanta una delle rose più tecniche e complete della massima serie, non può essere. Un paio di considerazioni a margine: la prima, Simplicio è sempre più parte integrante della squadra. Gli si augura, e non pare un’eresia il pensarlo, che possa ripercorrere le gesta di Pizarro (che manca, santi e padreterni sanno quanto manca: e Ranieri?). La seconda, Borriello è imprescindibile. Fa reparto da solo anche quando i difensori a marcarlo e infastidirlo sono i quattro della Lazio più Adriano (scambio alla pari con Insigne del Foggia?). Chiosa con la frase che più ha colpito nel corso della conferenza stampa di Ranieri. “La Lazio ha giocato meglio? Si è vero, ha avuto più occasioni. Ma noi abbiamo vinto no? quello conta. Hanno giocato bene, siano contenti per questo“. Regalare un tempo agli avversari e pensare di essere stati validi strateghi solo perchè si è vinto pare riflessione sterile. A prescindere da ogni considerazione nel merito (la prima? mai vista una squadra vincere a oltranza senza giocare bene) continua a sfuggire – sfuggirmi – il senso del comportamento di Ranieri che, anche di fronte ai giornalisti, pare conservare una spocchia spesso fuori luogo e assumere un tono che preclude ogni forma di dialogo. Perchè è vero che chi vince ha sempre ragione ma è altrettanto vero che, in lotta con il mondo, per avere ragione è condannato a vincere sempre. Mourinho ci riesce, Ranieri deve ancora dimostrarlo.