Aver avuto la fortuna di assistere a Roma-Inter significa aver vissuto un’emozione che, parafrasando una nota pubblicità, non ha prezzo. Da Il Tempo:
Una finale. Mancavano solo la musichetta della Champions League e una coppa, tutto il resto no. Colori, atmosfera e gente, tanta gente. Una festa così con un Olimpico così, pieno come un uovo, grondante passione e vociante, non si vedeva dal 27 maggio 2009. Allora c’erano Barcellona e Manchester United, in palio c’era la cara vecchia Coppa dei Campioni. Roma e Inter, invece, si giocavano almeno due dei tre colori che compongono il triangolino dello scudetto. Non un trofeo, ma comunque tanto.
Tantissimo, se si pensa a dove stava qualche tempo fa una delle due. Il sogno, l’insostenibile leggerezza del momento giallorosso contro la praticità e la solidità della corazzata nerazzurra. Roma-Inter non è solo una partita, ma un confronto, applicato al calcio, tra scuole di pensiero e filosofie di vita totalmente differenti; è un Davide che tra tecnico, titolari e panchinari spende meno di 70 milioni lordi per pagare gli ingaggi che tenta di riacchiappare un Golia da 150; è la resa dei conti tra chi è sempre stato in testa e chi, come al Palio di Siena, parte di rincorsa. L’Olimpico, visto il menù, si riempie subito. La Curva Sud, «il cuore che batte nel cuore della Roma», inizia a pulsare due ore prima. Anche il battito degli altri settori incomincia a farsi sentire presto. La marea romanista si abbatte su tutto lo stadio, resiste solo il piccolo scoglio del settore ospiti interista. Quaranta minuti dal fischio di Morganti, Roma e Inter escono sul campo per il riscaldamento. Ranieri, come un imperatore, si fa la sua passeggiata e si prende gli applausi del suo popolo. Mourinho, invece, resta in disparte, vicino alla panchina, rinchiuso nel suo cappotto e assorto nei suoi pensieri. Vucinic chiama a raccolta il tifo giallorosso, Eto’o guarda la porta sotto la Nord e pensa. Forse a Vidic e Van der Sar beffati e al gol al Manchester. Volti tesi, facce pensierose. Anche in Tribuna Autorità, dove lo «struscio» è quello delle grandi occasioni. Politici, attori, cantanti, vip, presunti vip, amici, amici degi amici, conoscenti, tifosi romanisti, interisti o neutrali: non manca nessuno. L’inno di Venditti è un karaoke per quasi settantamila voci, uno striscione spiega tutto: «Grinta, voce, cuore…Roma tricolore». I giallorossi partono alla carica, l’Olimpico diventa una polveriera. Per il pandemonio bisogna attendere sedici minuti e qualche secondo: De Rossi la butta dentro, gonfia la sua vena e altre settantamila. L’Olimpico vibra e traballa dalla gioia per oltre un tempo. Milito blocca le scosse del terremoto giallorosso, la Sud riprende a cantare come non fosse successo nulla. Fa bene. Sette minuti dopo Toni fa eruttare un vulcano. Saltano tutti, quasi settantamila teste romaniste, nessuna esclusa, su e giù. Il palo di Milito sul gong è un’altra esplosione, quella della liberazione. Finisce con la Roma sotto la Sud e con i primi caroselli all’uscita. Una notte così, un girone fa, non se la sarebbe immaginata nessuno.