Olimpico deserto, Roma chiama a rapporto il popolo giallorosso

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Il colpo d’occhio non è certo dei migliori. Tutte le domeniche che la Roma si trova ad affrontare gli avversari tra le mura amiche dello stadio Olimpico, il fattore campo, man mano che passano le giornate, smette sempre più i panni di dodicesimo uomo e diventa un semi-deserto al quale è difficile rassegnarsi.
L’analisi del Il Romanista nelle edicole oggi è tanto pungente quanto realistica e merita un richiamo anche per l’accorato appello che il giornalista G. Dotto rivolge al pubblico romanista. Quello in definitiva, di tornare a popolare l’Olimpico con l’amore giallorosso. L’articolo:


Masochisti si nasce. Tanto per farmi del male, tre minuti prima delle 15,00, ho toccato il tasto e sono passato dall’Olimpico all’Anfield Road, Liverpool contro il Manchester, ma poteva essere anche il Portsmouth, e cado dentro la vertigine. La voce spezzata di Marianella, i cori, le sciarpe, la Kop, tutto lo stadio, uno stadio così pieno, ribollente e solidale, che se starnutisce uno si ammalano in cinquantamila. L’ho visto, in tutta la sua commovente potenza, quando si dice che il calcio è una religione. Ho rivisto quello che eravamo e non siamo più. L’ultima volta, la sera diRoma-Arsenal. Sono tornato all’Olimpico. Un cazzotto nello stomaco. Paesaggio spettrale, acustica sepolcrale. Tremilatrecentoventotto paganti, potevi chiamarli uno a uno per nome, più i circa ventimila abbonati, Pippo Marra e la sora Maria. La stessa unità di tempo, l’Anfield e l’Olimpico, due scenari estremi, prima e dopo l’apocalisse. La festa e la desolazione. La gioia di esserci e la malinconia di non potere fare a meno di esserci. La Roma di oggi è come l’Okawango, il fiume più bello del mondo. Un fiume che muore nel deserto. E il deserto avanza. Torniamo alla domanda che da qui in poi sarà il tormentone del Romanista: abbiamo fatto qualcosa di male per meritarci tutto questo? La risposta è sì, ce lo meritiamo. La colpa è anche nostra. A questo punto, soprattutto nostra. Dei tifosi che si svuotano in pancia, guardando, parlando, ascoltando o leggendo, che esauriscono la loro rabbia nello sfogo narcisistico al bar o alla radio. Di quelli, sempre di meno, che allo stadio ci vanno ancora e non sanno perché, di quelli che ci vanno prigionieri della retorica che “la Roma si ama, non si discute”. Qualcuno di loro applaude forse al capezzale della persona cara che sta agonizzando, solo perché si sforza, nemmeno poi tanto, di restare in vita? La colpa è di chi fa comunicazione. Decine di giornali, radio, siti web, televisioni, centinaia di guru, migliaia di ego sparsi, ognuno a pompare il proprio con la suatastiera o il suo microfono. Roma è una giungla di voci che non fa una voce. La Roma è aggredita da un male profondo. Spalletti e i suoi, quando erano suoi, quando erano (quanta nostalgia) ha fatto per anni da tappo. Abbiamo incensato il nulla su cui volava. Il tappo è saltato. Inutile rifare il rosario della disgrazia. Il nulla che ci governa, il nulla che si stipendia. Colpi bassi. L’ultimo, lo stipendio della Mazzoleni svelato da Enrico Maida, ieri sul Messaggero. Anche il tempo della nausea è passata. E’ venuta l’ora di dare di stomaco. Ci hanno rubato il presente, ci negano il diritto d’immaginare un futuro. Ci confondono con i fumogeni, proibiti allo stadio ma non a Trigoria. Lo stadio secondo Walt Disney, i rinforzi virtuali, Montali e Molinaro, due scarti della Juve. E noi? Invece di farci soffocare dal vomito, invece di allearci, di pensare tutti insieme a una soluzione che ci restituisca il diritto di schiantare i nostri cuori dietro quel miraggio chiamato Roma, noi cosa facciamo? Riempiamo pagine, spazi, palinsesti. Probabilmente ci detestiamo l’uno con l’altro. E lasciamo fare. Alle banche, alla politica, mummie che non valgono un’unghia del nostro delirio. Li lasciamo che giochino al loro gioco preferito, l’esercizio del potere. Non abbiamo rispetto di noi stessi. Tutti noi, tutti contro tutti, malati di mediocre protagonismo, ognuno a portare l’acqua al proprio orticello, ai propri stipendi, al proprio ego, l’unica cosa di cui siamo veramente tifosi. E non ci rendiamo conto che attorno a noi la Roma sta morendo.


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