Da Il Romanista
Non c’è tempo per piangersi addosso. Se qualcuno se ne sta ancora imbambolato a ripensare a Cissè, l’attualità lo svegli. Il San Paolo ci attende con i suoi spalti “gremiti in ogni ordine di posto” (magari anche oltre), con il suo feroce grido avverso ai nostri colori, con quella passione che spesso diventa altro. Roba da gente tosta, insomma, roba da Ranieri, roba da De Rossi, roba da far scatenare Mirko Vucinic, uno che con quell’aria un po’ così, in realtà, non si spaventa mai, (si pensi a quando ha rischiato la vita segnando un gol a Catania, una rete che ci poteva regalare lo scudetto a discapito della pelle di giocatori e cronisti). Loro ci aspettano con molto timore, “gara più difficile di quella con l’Inter“; “Roma da scudetto”; “sono una grandissima squadra”, dichiarano con buona dose di scaramanzia. Entriamo in campo senza calcoli, senza paura dei loro sfoghi iniziali, delle loro lamentele continue (già le vedo), di qualche giocata da accademia. Il match col Napoli non è uno spareggio, ma un esame i maturità. Lo sarebbe stato comunque, ma dopo l’uscita dall’Europa League i significati aumentano.
Può una strana competizione, con poco fascino e nessuna storia fermare la nostra corsa? Certo, la serata di giovedì è stata davvero difficile da digerire, si erano riviste le masse allo stadio, persino le tanto evocate famiglie. Però proviamo a imparare la lezione, invece di strapparci i capelli. L’aspetto più clamoroso di una partita più sfortunata che altro, è stato lo scioglimento repentino. Vedi alla voce amnesia: disturbo della memoria a lungo termine episodica. Delle volte il dizionario fotografa meglio di qualunque cronaca. Se tre indizi fanno una prova, ora c’è la sentenza: la Magica del Sor Claudio è condannata a un esame di coscienza. La diagnosi deve essere psicologica e non tattica: soffriamo di vuoti di identità. Cagliari è stato il primo sintomo inaspettato, una fulminata da togliere il fiato, Atene è stato il campanello d’allarme e il ritorno dell’Olimpico dà la conferma di questa strana sindrome Queste tre partite, diverse, ma unite da un epilogo calcisticamente suicida, ci raccontano di un gruppo solido che all’improvviso si eclissa, come un muro insormontabile che alla prima crepa viene giù di un colpo. Ne parliamo con tranquillità (e ottimismo) perché i risultati degli ultimi quattro mesi ci dicono che la squadra è affidabile, forte e tostissima. Ma con una classifica eccellente (e bugiarda, vedi Rosetti) e una finale di Coppa Italia a portata di mano è il momento di tirare fuori la grinta. Ieri Ranieri ha insistito sul fatto che questi vuoti vanno addebitati alla squadra e non al singolo. Il tecnico ha ragione: accusare questo o quello (che poi significa Doni, peraltro non il peggiore di giovedì) vuol dire non capire: se a sbagliare fosse uno soltanto non si prenderebbero quei gol in sequenza. A Cagliari colpa di Cassetti e dell’arbitro, ad Atene di Doni e Burdisso, l’altro ieri di De Rossi e Mexes: tutto vero, ma oltre al dito vediamo la luna. Per non vedere più le stelle. Oggi non ci giochiamo a stagione, non esageriamo, siamo sempre nel fatidico “curvone”, ma legittimamente entriamo al San Paolo con la faccia cattiva. Siamo quelli di Torino, quelli di Firenze, sappiamo soffrire per poi uccidere. A De Laurentiis che al cinema ha fatto i milioni con uno pseudo horror, facciamo vedere che la vera Paranormal Activity la gira Mirko.