Vola, Jeremy, vola

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 Pagherei per segnare domenica. Jeremy Menez si avvicina a Lazio-Roma svestendo la timidezza cui lo sguardo che “non sai dove sta guardando” aveva fin troppo abituato. Longjumeau continua a essere terreno su cui poggia la radice, la capitale semmai è finestra attraverso la quale quel pensiero che “non sai che sta pensando” ha imparato a prorompere. Non è mai stata questione di geografia, per Jeremy. Piuttosto, di appartenenza. Arrivare alla banlieue 94, da Parigi, significa salire sulla Rer C e lasciarsi inzuppare dalla campagna circostante. Mattina e sera. Mattina e sera. Fin da piccolo. Mentre tutt’intorno la società viveva tumulti e stimoli a colpi di musica e armi da fuoco, cazzotti e rime mai banali, il tragitto era sempre quello. Verso il centro per non puzzare di fame, verso la periferia per tornare a casa. Abituato com’era, poco male dover entrare nel cuore di Roma proprio così. Dal sobborgo di un anonimato per rimanere travolti dall’immensa centralità della capitale presa d’assalto dal mondo intero. Poco più di due anni fa. Arsene Wenger, Daniele Baldini, Luciano Spalletti: lo hanno osservato, Menez, mentre nelle fila del Monaco muoveva i primi passi verso quel tipo di calcio che può appartenere solo ai fuoriclasse. Fatto di colpi che non impari in allenamento, per i quali non hai bisogno di ringraziare nessun allenatore. Unico nel genere, dicevano del transalpino. Unico nel genere, ha ripetuto a poche ore dalla stracittadina Vincent Candela.

Wenger fallì dove riuscirono gli altri due. Menez sbarcò a Roma il 28 agosto 2008 tra l’indifferenza generale e gli misero sulle spalle il 24. Cifra numerica che distinse gli anni giallorossi di un certo Marco Delvecchio. Poi il 94. Che non ammutolisce come un 10 ma delinea ulteriormente l’essenza di un percorso coerente. Dall’hinterland al centro. In ogni senso. “E’ il giorno più bello della mia carriera da calciatore“. Dopo l’ultimo derby: entra, cambia volto alla Roma, raccoglie l’ovazione di un Olimpico giallorosso da trasferta ma sotto la Sud, con il vento in faccia di una notte romana che – già di suo – non somiglia a nessun’altra notte, Menez ha archiviato la gara contro la Lazio a notte fonda. Era stato schierato per Francesco Totti: Menez ha trasformato la partita. Nulla di decisivo, tutto di indispensabile. E’ la maniera in cui il francese ha abituato a inquadrarlo in campo: di gare splendide ne ha inanellate parecchie. Ranieri gli ha insegnato a essere parte della squadra, la squadra a sua volta gli ha aperto un varco per fiondarcisi all’interno. E lui, come Mexes e Burdisso quando recepiscono l’occhiata di Juan, dopo averlo capito, in quel varco ci è entrato con anima e corpo. Per la seconda volta consecutiva succede a Menez di sostituire il Capitano in occasione del derby.  La due giorni in Svizzera è stata prova generale. Meglio non sarebbe potuta andare. Giocherà, lo sa stavolta: il destino di Jeremy tutto nelle sue mani. Nei suoi piedi. Come sempre. Che in fondo, non è cambiato nulla rispetto a quand’era ragazzo e nelle periferie parigine non c’era lavoro, non c’erano prospettive, non c’era futuro.  Da lì si sviluppano eventi che hanno dato vita a trame a tal punto articolate che osservi Menez e ti viene di guardarlo con lo sguardo che “non sai dove sta guardando”. Di provare ad afferrarne i pensieri nella stessa maniera incantata di un pensiero che “non sai che sta pensando”. Però lo percepisci quale parte dell’insieme. Un gruppo che gli vuole bene e lo coccola. Tutt’altro che estraniato: lui è così, in quel suo  porsi nei confronti della vita con le maniere un po’ scontrose, la realtà vera è che FenoMenez è elemento imprescindibile, pennellata dell’insieme, frutto della cesta. E domani, dietro a Vucinic e Borriello, scocca l’ora di Menez. Vola, Jeremy, vola. Stupisci, incanta, concretizza. Perché se è vero che hai imparato cos’è un derby a Roma lo è forse altrettanto il fatto che non hai ancora capito quanto si è in attesa che a fargli gol, a quelli là, sia proprio tu.


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