La fedeltà è una condizione mentale nei confronti della quale neppure le statistiche riescono a essere tanto esplicative. Chi e cosa sono le Bandiere lo dicono i numeri. Vero. Ma dove i numeri non arrivano…
Ci arrivi la memoria.
In barba al frastuono che offusca i pensieri se solo ti ci metti a pensarci…
Dov’ero il 30 maggio 1994. Non me lo ricordo. Potrebbe essere stato un giorno amorfe di una vita così così. Ma cos’è il 30 maggio – di ogni anno – non l’ho più dimenticato.
San Marco sta nel Cilento. Castellabate è una piccola frazione del comune che porta il nome del santo. Turistica per natura propria: c’è il mare, il sole, si mangia bene. Un inno alla vita ubicato nell’area del salernitano. Fosse lo scenario di una pellicola, sarebbe il paesaggio ideale di uno di quei film che si girano d’estate. Poi, d’improvviso, diventa teatro di un dramma.
Sono le nove meno dieci del 30 maggio 1994 – a pochi giorni dal Mondiale Usa, lo vincerà il Brasile ai rigori. Il paese comincia a svegliarsi. Mentre un paio d’occhi si spengono per sempre. Il motore dell’economia campana entra a pieno regime col passare dei minuti. Mentre un cuore si sta per distruggere.
L’attimo prima di agire dicono sia il più importante. Intenso, se c’è da prendere il coraggio in mano e dargli da mangiare ottimismo. Tremendo, se c’è da prendere tra le dita quello stesso coraggio. E cibarlo con pessimismo.
Il coraggio di Ago, alle 8 e 50, è una pulsione che picchia in maniera disperata. Il braccio sta curvo a formare un angolo di una ottantina di gradi: la mano si avvicina al cuore. Senza mai toccarlo. Attaccata all’organo pulsante c’è una canna metallica – Smith & Wesson calibro 38 pulita e pronta per l’uso.
Non è mai stato un fifone, Agostino Di Bartolomei. Lo dicono i fatti.
Sole sul tetto dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone e terra e polvere che tira vento e poi magari piove.
Romano di nascita, Agostino Di Bartolomei vede i natali l’8 aprile del 1955 e trascorre infanzia e giovinezza nel quartiere Tor Marancia, dove comincia a muovere i primi passi verso il calcio che conta. L’oratorio – riferimento imprescindibile per ciascun giovane dell’epoca – gli offre l’opportunità di far parte della prima squadra, la San Filippo Neri. Talentuoso, grinta da vendere: Ago stupisce e incanta, tanto da meritare un trasferimento in quella che era già una realtà del calcio capitolino, l’Omi.
Nino cammina che sembra un uomo, con le scarpette di gomma dura, dodici anni e il cuore pieno di paura.
La prima grande soddisfazione arriva al tredicesimo anno di età: osservatori del Milan meravigliati per quel modo sopraffino e intelligente con cui un tredicenne riusciva a trattare la palla. Propongono alla famiglia Di Bartolomei un ingaggio che costerebbe ad Ago il trasferimento a Milano. Ci si riflette, ma pare che il rifiuto più determinato sia proprio quello del ragazzo, per nulla contento di emigrare dalla sua Roma al nord. La proposta viene rifiutata: c’è anche chi, di fronte a tanta “incoscienza” comincia a credere che quel giovincello si sia montato la testa. In realtà, dietro l’angolo, arriva immediata la controproposta: è la Roma a mostrare ora interesse verso il centrocampista. Camillo Anastasi si lustra le pupille ogni volta che lo vede toccare palla. Concordato il provino per entrare nelle giovanili giallorosse sotto gli occhi di Helenio Herrera, Ago ce la fa. Il consenso, stavolta, immediato. In men che non si dica, Di Bartolomei diventa Capitano del club, vince lo scudetto e si fa notare dai referenti della prima squadra. Il salto pare scontato, pochi avrebbero però pensato che potesse avvenire tanto presto. Entrato nell’orbita della categoria maggiore, Agostino Di Bartolomei esordisce con la Roma che conta il 22 aprile 1973 (Inter-Roma, finisce 0-0): il principale artefice e sponsor dell’approdo in serie A di Ago, è l’allora tecnico capitolino Manlio Scopigno, innamorato del modo di giocare del mediano.
Nino capì fin dal primo momento, l’allenatore sembrava contento e allora mise il cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento.
Alla conquista dei grandi palcoscenici senza la necessità di catturare l’occhio delle telecamere con tatuaggi e orecchini, acconciature sgargianti e comportamenti eccentrici. Serio, concreto, troppo orgoglioso per mostrarsi debole, di pochi sorrisi e parole pronunciate con il contagocce. Profondo conoscitore d’arte; amava la scienza e la letteratura, si iscrisse a Scienze Politiche individuando con ogni probabilità il modo per dare seguito a entrambi gli interessi. Sul rettangolo verde, a Di Bartolomei vengono riconosciute almeno tre doti invidiate da molti: il lancio lungo che sa essere preciso neanche fosse un metronomo, il destro potente che gli consente di andare al tiro dalla distanza e garantire una ulteriore soluzione in fase offensiva, la visione di gioco di uno che – mentre sta in campo con gli altri 21 – sembra stia guardando tutti dall’alto.
Ma non è veloce: armonico come pochi altri, gli manca lo scatto.
Parte per Vicenza, va a farsi le ossa nel 1975 per tornare più maturo e pronto di prima. Più innamorato di Roma, e della Roma, e di quel tifo con cui inizia a legare in maniera profonda. Tra il 1976/77 e il 1980/81 diventa un punto fermo dello scacchiere capitolino. Sta in mediana con De Sisti, con il tramonto di Santarini diventa il Capitano della Roma. Salta pochissime gare, la stagione 1977/78 è la più prolifica: 10 reti in 26 presenze.
Prese un pallone che sembrava stregato, accanto al piede rimaneva incollato, entrò nell’area, tirò senza guardare ed il portiere lo fece passare.
1982/83. Alla guida tecnica della Roma c’è Nils Liedholm: per lo svedese, Di Bartolomei è un difensore centrale che ben può integrarsi con quel mastino che è Pietro Vierchwood. Ago si fa tutta la stagione in retroguardia, mette sette palloni nelle porte avversarie e contribuisce in maniera significativa alla conquista di uno scudetto che la Capitale aspetta da 41 anni.
Ago, Ago, Ago, Agostino gol: la Sud faceva partire un coro che aumentava di intensità con il passare dei secondi. Bastava che Agostino si avvicinasse – 30, 40 metri – all’area di rigore ospite e che si intravvedesse lo spazio per far passare il pallone. Amava ed era amato per quella capacità di essere un leader che non aveva bisogno d’eccedere.
In realtà, anche Ago sapeva oltrepassare i limiti: solo che, il suo mettersi in evidenza, voleva dire laurearsi due volte (in un contesto nel quale – forse – si contavano e si contano sulle dita di una mano i calciatori che, di lauree, ne hanno solo una), essere estremamente corretto dal punto di vista agonistico (a Roma, un solo cartellino rosso all’attivo), umile e sensibile come nessuno (era quello che, a chiunque capitasse di sbagliare una punizione, gli dava una pacca sulle spalle).
Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia.
L’anno dopo la Roma si gioca la Coppa dei Campioni. I giallorossi fanno fuori il Goteborg, il Cska Sofia, la Dinamo Berlino, il Dundee United. Una cavalcata trionfale fino alla finalissima dell’Olimpico contro il Liverpool. 30 maggio 1984. Non bastano 120’, servono i calci di rigore. Agostino è uno di quelli che lo tirano. E fa gol. Sbagliano Conti e Graziani, per i Reds il solo Nicol. La Coppa va in Inghilterra; negli spogliatoi giallorossi, dopo il triplice fischio, Di Bartolomei non sa che si è appena conclusa una delle ultime gare con la maglia della Roma. Quei minuti, Ago li passa a litigare con Falcao che si era rifiutato di calciare uno dei cinque penalty.
Che sarebbe andato via, lo si seppe giorni dopo: sacrificato dalla società per motivi di bilancio e – a quanto pare – poco apprezzato anche da colui che succedette a Liedholm sulla panchina della Roma, Sven Goran Eriksson. L’ultima gara di Ago con la Magica fu la finale di Coppa Italia contro il Verona. La Sud si schierò con lui: “Ti hanno tolto la Roma ma non la tua curva“.
11 anni alla Roma, 237 presenze, 50 gol.
Seguì il Barone al Milan.
Ma il cuore lo lasciò nella Capitale: non li capì mai i motivi della cessione. Forse, nemmeno lì accetto per davvero. Avrebbe voluto chiudere la carriera in giallorosso. Per scrivere la vita che più gli era congeniale: due grandi amori, Marisa e la Roma. Ma era orgoglioso, Ago: seguì il flusso degli eventi. E onorò ogni contratto come un professionista avrebbe dovuto fare.
I suoi compagni di squadra in rossonero lo soprannominarono Sant’Agostino per l’indifferenza verso discoteche e bella vita. Stava chiuso in casa – Ago – e si consumava di malinconia.
Il tradimento, per alcuni, è una ferita che non si rimargina più.
E quando gli amori sono fortunatamente due, c’è l’altro che riesce a fare da contrappeso.
Non ci fosse stata Marisa, nella vita di Agostino…
Prestare la mano ai ricordi, è un onore.
Perché parlare di Agostino Di Bartolomei, sempre da sempre, è un piacere che si intreccia al dovere. Ci sono personaggi entrati a tal punto nell’essenza di un contesto che – spesso – diventano più significativi dei trionfi, dei successi. In tal senso, le date della vita di uno dei più grandi calciatori che abbia mai indossato la maglia della Roma diventano ancor più indelebili di ciascuno dei giorni che contraddistingue le vittorie della Roma.
E che la Capitale, uno come Ago, non lo dimenticherà mai, va da sé.
Esistono momenti che accomunano le esistenze di ciascuno faccia parte della storia di una Nazione. In Italia c’è la Liberazione, c’è il Primo maggio, il 2 giugno.
Ma poi, circoscrivendo l’ambito di riferimento, esistono realtà del sottoinsieme che vivono con la stessa capacità di marchiare per sempre uomini, attimi, frammenti.
Per 10 anni, il 30 maggio è stato l’anniversario della finale di Coppa Campioni tra Roma-Liverpool.
Per 10 anni.
E poi… solo Ago, Diba, Nino.
Per lo stesso motivo, pare improponibile dire “giallorosso” senza accostargli di fianco – all’aggettivo – un nome e un cognome impressi nella memoria di quel binomio cromatico. Agostino Di Bartolomei, a 16 anni dal suicidio.
Ci sono intere generazioni che hanno imparato ad amare il calcio osservando e facendo proprie le caratteristiche di un calciatore che è somigliato a pochi altri. Per classe, eleganza, interessi, educazione, carattere, voglia di conoscenza e per quella particolarissima capacità di dare al pallone le fattezze di un mappamondo. E trasfigurare – in quella forma a palla – i dubbi del pianeta, quelli esistenziali, i problemi della vita reale, la coscienza di quel che gravità intorno a ciascun essere umano.
Ecco: c’è chi impara a giocare coi piedi e chi – ma sono pochissimi – prova a mettere in scena lo spettacolo più difficile. Giocare con la testa.
Agostino, quella spiccata propensione di utilizzare il corpo per mettere a fuoco la società e lasciarsi avvolgere dal’esistente, l’ha sempre avuta.
Lasciarsi bere e dissetarsi attraverso il calcio per provare a essere un uomo migliore. Un calciatore completo.
Forse per questo, si arriva a un punto in cui – a furia di dare e ricevere meno di quanto si dà – l’ago della bilancia che pende tutto da una parte, comincia a pesare.
Molti, tra quelli che lo hanno conosciuto, vivono con un debito inestinguibile verso Ago.
Perché si può essere diversi. Ma non per questo si è meno colpevoli.
E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori che non hanno vinto mai ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro a un bar, e sono innamorati da dieci anni con una donna che non hanno amato mai.
L’attimo prima di morie dicono sia il più soggettivo. A ciascuno il proprio: in quattro fotogrammi si riesce a vedere ciascuno dei momenti che hanno significato qualcosa; oppure, è proprio l’istante nel quale non si riesce a focalizzare nulla.
L’attimo di Ago, alle 8 e 50, è un mistero che potrebbe spiegare solo lui. Il braccio sta curvo a formare un angolo di una ottantina di gradi: la mano si avvicina al cuore. Senza mai toccarlo. Attaccata all’organo pulsante c’è una canna metallica – Smith & Wesson calibro 38 pulita e pronta per l’uso.
Gli occhi si chiudono lentamente, in maniera parallela all’indice. Che comincia a muoversi.
Poi parte un colpo. Che lo senti come fosse ora.
T’immagini che l’arbitro ha fischiato l’inizio: Vucinic tocca per Totti e da lì si spiega la prima azione della gara. Invece è un brivido che attraversa il corpo. Perché in realtà l’eco di quello sparo che risale al 30 maggio 1994 somiglia solo al fischio finale.
A 39 anni si spegne la vita di Agostino Di Bartolomei.
Tutte le volte – maledizione – mi tornano alla mente le stesse sei, sette righe. Giacomo Leopardi: “Riconosciuta la impossibilità tanto dell’essere felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo soprattutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; … riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie, individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita, resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consiste nel minor modo possibile sentimento di detta tendenza“.
E perdonami, Ago, se son riuscito a mettere insieme solo qualche pillola dell’immenso fiume di parole che avrei voluto riservarti.
Ma procedere con gli occhi umidi e un magone grosso così mi è impossibile.
Scusa.
Agostino Di Bartolomei nell’eternità. 1994-2010. Ago, non aver paura…
di 30 Maggio 20102
luciano d'antoni 30 Maggio 2010 il 19:06
grande grandissimo agostino
leonardo Gianfrate 24 Settembre 2010 il 12:18
Vorremmo intitolare un premio alla terza edizione che dedichiamo a grandi personaggi scomparsi. (in passato Angelo Moratti e Gaetano Scirea per lo sport, Ivan Graziani e Rino gaetano per la musica, troisi e Totò per il cinema). Vorremmo avere un contatto con parenti di Agostino per invitarli alla premiazione che si terrà il 19 novembre a Putignano.
Leo Gianfrate presidente associazione Italia 2006 putignano 3403680245