1. Una lattina, a volte, è tutta la vita che hai
L’erba imbevuta di umido in un campo verdeggiante solo a tratti. Ma di gran lunga – vedi, senti, tocchi – lo sterrato. Buttato in mezzo al niente più assoluto: come i rifiuti che circondano una montagna artificiale dove i bambini salgono fino in cima facendo gare di velocità. I mattoni cedono dai due metri d’altezza e diventano parte integrante del corso di una strada che sembra solo un altro frammento di terra. A cui l’asfalto – che non c’è – non ha mai dato un significato alternativo a quello – primordiale, primitivo – della giacenza fine a se stessa. Gli occhi che capita di incrociare – a notte fonda, col sole a palla – sono racconti che non hanno lieto fine: il futuro sta in uno sguardo la cui proiezione nella mente è incancellabile. Come le scie degli aerei dipinte su tela che delineano – nella vita reale – solo il vissuto di chi ha avuto buona fortuna. Fin dalla nascita.
Povertà evidente, nessuna prospettiva futura tra immense spianate che odorano di sporcizia, circondate da cielo e basta. Grandi come le piaghe che dal corpo di un fringuello di qualche spicciolo d’anni, non andranno mai via. Vaste branchie di strade impercorribili se non a piedi che somigliano alle pupille di una piccola inerme – corpo da bambina, perplessità di un’adulta: tre anni e mezzo vissuti senza avere una madre e un padre.
Il mondo interiore di uno scricciolo, lasciato in un angolo del paese qualche ora dopo essere nato, a otto anni sembra non coincidere coi suoi movimenti: se corre sfrecciando avanti e indietro ha gli occhi arrabbiati e parecchio distanti, ma quando si ammutolisce e respira ansimando, l’uscio di quegli occhi si schiude e tu – chiunque sia il soggetto – ti ci butti dentro a capofitto.
Nel mondo c’è spazio per tutti. Davvero.
Dividere in maniera netta è un attimo: tiri una riga con matita e righello – certe volte – e hai fatto l’Africa. Ti siedi a una tavola rotonda – un capoccia, due capoccia, un gruppo di capoccia – e hai spartito il territorio.
Lo dicono i libri di storia.
Ma chino sui gomiti – su un annuario – stai solo alla superficie.
Arrivare in profondità è un macello: viaggi, approfondisci, cerchi di mettere a fuoco neanche fossi un accendino in procinto di dare vita a una paglia e provi ad assorbire. Assorbire. Assorbire ogni forma di conoscenza.
Ci sono luoghi dove non vorresti mai morire e l’aspettativa di vita è talmente bassa che non fai in tempo neppure a familiarizzare coi cinque sensi. Vista, udito, olfatto, tatto, gusto.
Ci sono località geografiche in cui potresti ambire al centenario, ma fatichi a tal punto a comprendere il senso di quel che sta intorno – luci, sapori, suoni, odori, cose – che scegli di morire.
Nell’un caso si registra un morto ogni 35 secondi; nell’altro, ogni 30 secondi c’è un suicidio.
Sud America, Brasile; Europa, progresso & sviluppo.
Un dato per tutti: la vita nelle Favelas, è un lusso; in Occidente, l’esistenza è un vezzo.
L’erba imbevuta di umido in un campo verdeggiante solo a chiazze è il paesaggio – sembrano i campetti dell’oratorio che stanno sotto casa. Ogni dolore percepito negli sguardi e nei timbri delle voci poppanti di quelle centinaia di bambini mai stati bambini, è atroce. E ogni luna, diceva qualcuno, amara. In un angolo piccoli uomini – dieci, undici anni – si aggrappano alle maniche del domani. E del domani ancora: inalano sostanze presenti in colle, gas, carburanti per annullare gli effetti della fame. Negli scorci della penisola, figli di famiglie ignare sniffano prodotti per la pulizia, diluenti, lacche per i capelli: si chiama “sniffing”, è la nuova moda. Di là – Favelas – le coperture delle case sono in eternit, a trovarne; di qua – Europa – lo hanno eliminato quasi ovunque. Per legge.
Adriano Leite Ribeiro è figlio di un detto afroamericano.
Puoi provare a uscire dal ghetto, ma il ghetto non potrà mai uscire da te.
La storia vera dell’Imperatore che si appresta a indossare la maglia della Roma potrebbe essere svelata a partire da più di un episodio: la nascita, la partenza, la rinascita, l’apice, il fondo, la statistica, l’esordio, il primo gol, l’ultima marcatura, l’innocenza perduta, la fanciullezza ritrovata. E parecchi altri punti di partenza. Ma ci si accorgerà, cammin facendo, che l’elemento di contatto tra i vari episodi che hanno segnato i 28 anni di vita del calciatore brasiliano è sempre quello.
La Favela.
Vila Cruzeiro, nella circostanza, è solo una casualità. Un nome proprio che – stavolta – assume un significato meno caratteristico e specifico del sostantivo comune e generico. Si sarebbe potuta altrimenti chiamare Rocinha, Parada de Lucas, Maré, Turano, Cidade de Deus. Sarebbe cambiato poco.
Perché se dici Fava, Favela sottintendi Favelados.
Davanti allo specchio, un Favelados che osserva la propria immagine riflessa vede pattume, spazzatura, elettrocardiogramma piatto.
Poco importa se nel gioco delle medaglie sovrapposte, il Brasile sappia offrire povertà mai vista e ricchezza sfrenata. Poco importa se la feccia che vegeta a Vila Cruzeiro disti dallo sfarzo della spiaggia di Ipanema solo quindici chilometri.
Perché quel brevissimo tragitto – 15 km!! – è in realtà tenuto separato da distanze che stanno lontane tra loro anni luce. A tal punto agli estremi che il degrado, la criminalità diffusa, i gravi problemi di igiene pubblica dovuti alla mancanza di idonei sistemi di fognatura e acqua potabile che fanno di Vila Cruzeiro la trasfigurazione della morte diventano – all’altezza della spiaggia di Ipanema – progresso, ordine pubblico e disciplina, soluzione immediata, vita da cogliere secondo dopo secondo.
Pensare che anche solo procedendo a piedi si possano colmare quei 15 chilometri – ovvero un’ora e mezza di passeggiata – è roba che solo se sei nato dall’altra parte del mondo puoi credere possa accadere. Da Ipanema a Vila Cruzeiro – in realtà – è un tour turistico; l’opposto sarebbe possibile solo se – in un’altra vita – si rinascesse dalla parte giusta.
Non per niente, Adriano – Leite Ribeiro Adriano – per varcare i confini di Ipanema ha dovuto far tappa in Europa. Dove anche la più insignificante frazione di un comune posizionato sul mappamondo somiglia più alla spiaggia che alla Favela.
28 anni si possono raccontare in altrettanti anni, in un giorno, in mezzo minuto. Oppure, individuando un lasso di tempo nel quale provare a dire buona parte delle cose che vanno indicate.
La biografia di Adriano è un flusso che scivola via lineare – nel mio cervello – tanto quanto s’è disarticolato in maniera complessa nel day by day dell’Imperatore.
Da qui al 7 giugno. Il tempo che ci si dà non va oltre la data in cui il calciatore e Rosella Sensi si troveranno faccia a faccia. Per sottoscrivere il contratto che legherà l’ex Flamengo alla Roma.
A conti fatti, Adriano – prima ancora di essere un attaccante da 352 partite e 168 gol all’attivo – è un’eccezione. Di quelle che confermano la selvaggia legge naturale delle Favelas brasiliane. Fabrizio De Andrè avrebbe detto che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori: tra le baraccopoli prive di ogni genere di necessità – quando va bene – una famiglia di almeno quattro persone guadagna un dollaro al giorno.
L’erba imbevuta di umido in un campo verdeggiante. Qualche macchia. E – quando va bene – c’è un momento verso sera in cui ci si inventa un pallone con la prima lattina sottotiro. E non esiste alternativa: quando si prova ad associare a una immagine l’idea di libertà – di vita intesa come sopravvivenza – non si riesce a pensare ad altro se non a un pallone su un campo da calcio.
E’ il 17 febbraio del 1982 quando a Rio de Janeiro – Vila Cruzeiro – nasce Adriano Leite Ribeiro.
Auden Bavaro