Da Best a Edmundo, dal Pibe al Pube. Storie di calcio, alcool ed eccessi (che Adriano pare uno dei Salesiani)

di Redazione Commenta


 Adriano dà il là per tornarne a parlare, ma gli intrecci di calcio, droga e alcool (se aggiungessimo sesso e festini faremmo prima a fare la conta degli esclusi) esistono da sempre. Quello dell’Imperatore è l’ultimo caso eclatante di una rosa di nomi che include giocatori eccellenti, talentuosi, il cui nome è rimasto impresso nella storia del pallone. Il denominatore comune è che ognuno di essi si è trovato a pagare in prima persona – chi rinunciando a sogni di gloria, chi perfino rimettendoci la vita – ciascuno dei vizi tirati all’eccesso. Nel caso di Adriano, la Roma ha pensato bene di cautelarsi inserendo nel contratto una curiosa clausola a tutela degli interessi della società (ribattezzata anti-birra, il termine rende l’idea). La speranza è che non faccia la fine dei tanti suoi illustri predecessori, anche se il recente passato mostra quanto – l’ex Flamengo – abbia già raggiunto livelli di dipendenza importanti.
ADRIANO A GO-GO. Andò via dall’Inter in malo modo. Rescissione del contratto e da più parti la convinzione di una carriera precocemente finita, di un giovane talento dissipato troppo presto e di una fulgida storia professionale gettata alle ortiche. Per colpa dell’alcool, della voglia di divertirsi ma soprattutto di dimenticare, o almeno di provarci, una serie di vicissitudini che hanno lasciato il segno (tra tutte, la prematura scomparsa del padre). “Addio al calcio”: era questo il leitmotiv di molti tra gli addetti ai lavori, quando l’attaccante brasiliano lasciò l’Inter nel 2009 per ritrovare se stesso. Recuperare l’uomo ancor prima del calciatore. In molti – pensando al prossimo futuro dell’atleta – gli pronosticavano non più di una semplice sgambata in qualche club carioca di second’ordine. All’epoca, l’Inter fece più di uno sforzo per provare a restituire ad Adriano la propria serenità ma tutti i tentativi sembrarono vani. Col senno di poi, ripercorrendo il passato dietro l’angolo, viene da pensare che forse Adriano era poco motivato o che i mezzi utilizzati dal club di via Durini non fossero stati quelli idonei a districare la situazione. Fatto sta che ogni volta, quella che pareva essere la svolta decisiva dava seguito alla conseguente ricaduta.
 Sono molti, in tal senso, gli avvenimenti (alcuni più somiglianti a leggende metropolitane che alla realtà) riconducibili alle azioni poco encomiabili dal punto di vista comportamentale del brasiliano: dai problemi di droga alla frequentazione costante e abitudinaria di pornostar e travestiti, dall’abuso di alcool alle feste che cominciavano a tarda notte per finire oltre l’alba del giorno successivo. La realtà sociale dell’ambito di riferimento dell’Imperatore, tuttavia, è a tal punto da prendere con le pinze che viene difficile avvallare tante dicerie senza riscontri oggettivi: le prove di quel che Adriano ha fatto in Brasile non ci sono anche perché pare che accedere nel Barrio di Adriano sia più complicato di quanto possa esserlo penetrare nella Favela.
PROCESSO CORONA. A conti fatti, il caso più eclatante fu quello che portò alla luce l’imprenditore (e fate voi cos’altro) Fabrizio Corona che – quand’ancora Adriano viveva a Milano – fu protagonista di una serie di scatti che riprendevano l’ex nerazzurro in un locale. L’attaccante era visibilmente ubriaco e posava accanto a delle prostitute; sul tavolo c’era sale che poteva sembrare cocaina: che non lo fosse, lo ammise lo stesso Corona in sede processuale il quale disse testualmente: “Adriano deve essere indagato. Quelle fotografie erano allucinanti e vergognose: non è possibile che un ragazzo di 24 anni, che potrebbe avere tutte le donne che vuole, si faccia fotografare così, quando c’è gente che guadagna mille euro e ne spende 500 per andare allo stadio per vedere l’Inter”. Nella circostanza, accadde che Corona provò a far sparire le fotografie proponendole a Massimo Moratti in cambio di denaro: la società nerazzurra si rifiutò di comprare le immagini. E quelle fecero il giro del mondo.
 Peccato che, di fianco a quella di Corona, arrivò poi la versione del calciatore. Chiamato a testimonianza. Pressappoco così. Era il gennaio 2009.
Si qualifichi. E lui: “Adriano Leite Ribeiro”.
Si riconosce nelle foto? E lui: “Sì, ero a una grigliata, un churrasco, nella mia villa vicino Como. Ragazze allegre, ci divertivamo, io stavo semisdraiato sul tavolo. Corona fa le foto e cerca di convincermi a pagarle a peso d’oro perché spariscano. Sono compromettenti, dice lui. Io non volevo pagare, non avevo fatto niente di male. Lui disse che le ragazze potevano passare per prostitute. Che le foto si potevano ritoccare. Lui disse che il sale grosso che si vedeva su un tavolo poteva sembrare cocaina. Voleva trenta o quarantamila euro. Diceva che per uno che guadagna cinque milioni all’anno non erano niente”.
La conclusione dei giudici fu che Corona venne condannato a 3 anni e 8 mesi, nella sentenza ci scrissero: “Tutte le risultanze processuali non possono che portare alla conclusione che Fabrizio Corona ha commesso il reato di estorsione e che quello che vede come persona offesa il calciatore Adriano è senz’altro il fatto più odioso tra quelli qui trattati”.
FUGA IN BRASILE. Una confessione diretta non l’abbiamo mai sentita, quando Adriano tornò in Brasile e disse addio all’Inter si limitò a una dichiarazione poco dettagliata che sottintendeva e basta: “Le voci che mi dicono malato sono prive di fondamento. Sto bene, ho bisogno di tranquillità e devo capire bene come proseguirà la mia carriera. Non mi va più di vivere in Italia: ci sono sempre troppe pressioni su di me, non riesco a sopportare questo clima così asfissiante. La decisione che comunico oggi è ben ponderata: ho parlato a lungo con i miei familiari e con il mio procuratore. La scelta non è sportiva, ma di vita, perchè riguarda la mia felicità”. 6 maggio 2009.
 Pare che ci debba passare in mezzo un’altra esistenza. Un altro mondo. Persone nuove, ritemprate nell’animo e nel corpo. E l’Imperatore, con la casacca rossonera del Flamengo, torna a essere decisivo e a segnare con medie gol elevate. Invece, al 6maggio fa seguito l’8 marzo. Dell’anno dopo. “Adriano ha problemi d’alcolismo. Quando inizia a bere non riesce a fermarsi, afferma il dirigente carioca Marcos Braz, sbattendo in prima pagina la notizia.
Parole pesanti che – quanto meno per il pulpito da cui provengono – meritano qualche credenziale. Eppure, dal suo ritorno in patria, il carioca – eccezion fatta per qualche piccola “deviazione” – mostra di aver ritrovato, insieme alle radici,  se stesso, la voglia di giocare a calcio, la felicità.  Ha contribuito a far vincere il Brasilerao al suo amato Flamengo segnando la bellezza di 19 gol. Non basta, verrebbe da pensare?
SPERI E FAI LA LISTA. A volte ti dici di sì, altre ancora pare proprio di no. Negli attimi di maggior dubbio, poi, provi a fare mente locale per rendere ancor più solida la tesi per cui – nonostante l’alcool – l’Imperatore possa fare grande la Roma.
In fin dei conti, la lista dei calciatori genio e sregolatezza è molto lunga e Adriano – di quell’elenco – non è che uno dei tanti. Non solo: a furia di fartene venire in mente il più possibile, vai a scoprire che – rispetto a quelli di tanti calciatori illustri dei tempio più o meno recenti,  il vizio di Adriano d’attaccarsi alla bottiglia ogni tanto è come se fosse un mezzo difetto. Nulla più.
 E ti viene quasi da cancellare ogni paura quando scopri che, nella lista dei lussuriosi, c’è dentro  anche Giuseppe Meazza, storico calciatore di Inter e Milan che ha segnato in maniera tanto indelebile la stioria del calcio meneghino al punto da prestare il nome a quello dello stadio. Neanche il Balilla era uno stinco di santo ma – più in generale – sembra che la maledizione dell’alcolismo sia ricaduta frequentemente su quanti abbiano indossato la casacca nerazzurra. Lo ricorderanno i veterani, a cui basterà solo sentire nome e cognome per annusare nell’aria l’olezzo del “bianchino”: il biondissimo svedese Lennart Skoglund, piccolo e fantasioso mediano degli anni ’50 che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo per il fatto che di conferme non ve ne sono) essersi suicidato a 46 anni. Biondissimo come gli svedesi, amante del gioco acrobatico come i brasiliani: ebbe problemi con l’alcool e i debiti. Si narra che entrava nei bar di Milano e con il vecchio trucco della monetina colpita di tacco allo scopo di farla precipitare nel taschino della camicia riceveva applausi e Martini offerti per la circostanza da barista o avventori.
GARRINCHA, BEST Mané Garrincha è un altro esempio di calciatori che seppe incantare in campo e poi si spense povero e divorato dalla cirrosi.
 E che dire di George Best, il quale ha messo in cassaforte una carriera splendida, fatta di trionfi collettivi (con il Manchester United) e personali (Pallone d’Oro nel 1968) ma in realtà prodotto di una serie di debolezze fatali. Spese fior di quattrini in donne e bottiglie e poi salutò con l’allure del poeta maledetto. Più Baudelaire che clochard, con l’aeroporto di Belfast intitolato a suo nome, i film monografici, la scia di quel che avrebbe potuto essere e in qualche maniera, distorta, effimera, equivoca, fu.
TONY ADAMS. Avvicinandoci più ai nostri tempi troviamo Tony Adams, il centrale – sgraziato tutto colpi, sputi e imprecazioni – dell’Arsenal e della Nazionale. La sua parabola discendente si è tuttavia conclusa in una scalata in ascensore verso una vita diversa, migliore. Non perché sia morto, ma per il fatto che la sua, almeno la sua, è una storia a lieto fine. Tony vagava tra Londra: donne, alcool, cadute. Una volta inciampò sulle scale. Sangue, ambulanze, ricovero, ben ventitré punti di sutura sulla fronte. E la mattina dopo, come nulla fosse successo: Tony in piedi, Tony in campo. A fare quello che gli riusciva alla grande: colonna dell’Inghilterra e dell’Arsenal. Fino a quando non giunge alla confessione, cui fa seguito la fase di ripartenza. Sporting Chance Clinic, il centro di recupero da lui fondato qualche anno fa non ha bisogno di traduzioni. Si entra in condizioni di permanente devastazione e si rifà la valigia quando l’ossessione è evaporata. Nel frigobar solo acqua e succhi di frutta. Tutt’intorno, solo verde e alberi per dimenticare il vizio, tenere la bottiglia lontana, scacciare il demone.
 PAUL GASCOIGNE. Impossibile non citare Paul Gascoigne, che per Roma ci è passato. Altra sponda, quella laziale. Giocatore a cui fu dedicata una quantità enciclopedica di cori da stadio. Ce n’era di tutti tipi. Quell’ubriacone con l’orecchino, si diceva di Gazza verso cui si sono prodigati anche i libertini in pubbliche riprovazioni. La sua, tuttavia, è una storia che al lieto fine non ci arriva mai. Troppi nemici. Più l’inglese si spogliava delle sue colpe, più bepensanti scavavano nel profondo. Arrivati al punto di totale solitudine, quello in cui gli amici rimasti sono solo i compagni di bevute, sarebbe difficile distinguere tra un eventuale grido d’aiuto e la pretesa isterica di un altro sorso di birra.
EDMUNDO, ‘O ANIMAL. Particolarissimo il caso dell’ex Fiorentina. Edmundo, detto “O’ Animal” per un carattere forte e sanguigno. Bere era un piacere anche per lui, anche se – tra gli episodi che meritano un richiamo – quelli di Edmundo abbracciano l’alcool ma includono ben altre bizze. Amava  il carnevale fino a divenire maschera e giullare (nel suo contratto con i gigliati, pretese fosse inserita una clausola che gli consentiva di partire per Rio in occasione delle festività mascherate), regalava scimpanzè al figlio e lo riempiva persino di birra (sadico gusto? Basterebbe riconoscerlo, per capire?). Qualche volta, Edmundo, finiva fuori strada mentre guidava: accadde nel 1995, a sud di Rio. Stava al volante di una Jeep, ammazzò tre persone, finì in galera. Poi ne uscì perché i soldi, purtroppo, servono anche a evitare condanne certe.
 IL PIBE E IL PUBE. MARADONA, RENATO. Impossibile non accostarli. Viene fin troppo facile: sarà che uno è rimasto alla storia come il Pibe. L’altro è – evidentemente – il Pube. In quell’essere entrambi fatti di componenti fisiche addirittura dorate, Diego Armando Maradona e Renato Portaluppi rientrano di diritto nella lista degli eccessivi. L’ex romanista, che oggi fa l’allenatore, si presentò in Italia con un manifesto esistenziale di rara lucidità: “Ho avuto centinaia di ragazze. Ho fatto l’amore al Maracanà e nella toilette dell’aereo che mi portava a Roma. I terzini? Stiano attente, piuttosto, le loro mogli” e poi confermò i presupposti gonfiandosi petto e muscoli al ritmo della movida del litorale laziale. Giorno e notte. Giorno e notte. Petto villoso all’inverosimile ma in campo – domenica dopo domenica. Dopo domenica – i nodi venivano tutti al pettine. Iniziarono le ironie, le volute distorsioni semantiche: “Pube de oro”, i paragoni impropri con un altro maestro dell’esagerazione: Diego Armando Maradona, la cui carriera parla da sola. Renato ripartì lasciando sempre il dubbio sulle sue reali capacità. Maradona, nell’intermezzo, ha fatto in tempo a morire e rinascere almeno quattro, cinque volte.
E quando arrivi alla fine, di storie tanto eclatanti, fai almeno due riflessioni.
La prima è che ti auguri di doverne raccontare sempre meno, di casi simili.
La seconda – silente, ma s’insinua – è che Adriano, a confronto, pare uscito da una scuola di salesiani.
Allora, continui a incrociare le dita. Sempre più strette. Sempre più intrecciate.


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