«Sono felicissimo della mia scelta. Caratterialmente, anche se spesso qualcuno ha detto il contrario, mi affeziono tanto alla squadra in cui gioco. E’ successo al Flamengo come al Bayer Leverkusen. E anche qui. Sono timido e non cerco pubblicità di alcun tipo». Parole di Juan, il baluardo difensivo della Roma, che ha rilasciato un’intervista a Il Messaggero:
Eppure, l’estate scorsa, era vicinissimo all’addio. Conferma?
«No. Non ho mai pensato a lasciare la Roma. Non ne vedevo il motivo, la necessità».
Forse per le troppe critiche ricevute per le tante assenze. Era stanco di quella situazione?
«Solo bugie e falsità. Io sapevo che dovevo solo guarire bene. Perché nei primi due anni due infortuni diversi mi avevano fatto saltare tante gare. Prima la caviglia, poi il muscolo della coscia. Il secondo imprevisto dipendeva da quello precedente. Ma, lo ribadisco ora, non mi sono mai tirato indietro».
Che cosa vuole dire?
«Ho dimostrato in più di una circostanza il mio amore per la Roma. Ho rinunciato alla Seleçao, addirittura alle Olimpiadi per essere disponibile per questa squadra e rimettermi in piedi. C’è chi sosteneva il contrario. Anche Dunga in questo senso mi ha aiutato, ha capito. Pure lui ha pensato soprattutto alla mia salute: quando squalificarono Lucio per la gara con il Cile mi disse di star tranquillo e non mi utilizzò. Mai ho pensato, comunque, di perdere il posto nella mia nazionale».
Sia sincero: in questa stagione è più sorpreso dalla Roma da vertice o dal rendimento di Juan?
«Sorpreso da cosa? La nostra è formazione competitiva da anni. Siamo arrivati sesti l’anno scorso solo per colpa degli infortuni: non lo ritengo nemmeno un fallimento, avendo conquistato il piazzamento per giocare in Europa League. Anch’io, come la Roma, sono stato frenato dai guai. Sono sempre lo stesso, a Leverkusen e in Brasile non ho mai avuto incidenti. Qualcuno si è dimenticato probabilmente. Ma sono contento che la gente abbia nuovamente fiducia in me. Purtroppo nella stagione scorsa tutti abbiamo commesso errori. Sì, tutti».
Cioè?
«Ho giocato quando non dovevo. Era meglio guarire bene e anche lo staff tecnico spingeva sempre per farmi giocare. Eravamo tutti d’accordo, sbagliavamo insieme…».
La svolta, per la Roma e per lei, con Ranieri. Che cosa è successo?
«L’organico quasi al completo ha permesso al tecnico di lavorare su un gruppo affidabile, avendo sempre i ricambi in ogni ruolo. Personalmente con lui mi trovo alla grande. Ci alleniamo alla brasiliana, con il pallone e in scioltezza. In più ho curato in modo specifico, con addestramenti mirati, la caviglia, ho fatto la dieta e tanto stretching».
Tatticamente in difesa giocate in modo diverso da prima. Ranieri dedica tanto tempo al reparto arretrato. C’è un segreto dietro alla ritrovata affidabilità?
«Non lavora sulla linea, ma sull’atteggiamento difensivo. Devono partecipare tutti, anche i centrocampisti e gli attaccanti. In tre o quattro da soli non ce la facciamo. Lo so bene, io: nella Seleçao i terzini sono ali, per questo davanti ai due centrali difensivi si piazzano Gilberto e Felipe Melo».
La Roma, domani sera, tenterà l’aggancio al Milan: il vostro obiettivo è il secondo posto dietro all’Inter?
«Nessuno qui ha mai parlato di scudetto. Era nostro due anni fa, c’è mancato un pizzico di fortuna: i nerazzurri sono fortissimi. Adesso dobbiamo tornare in Champions. Vogliamo vincere il maggior numero di partite e alla fine faremo i conti. Con Totti e Toni ce la giochiamo alla pari anche con la formazione di Mourinho. Nelle ultime partite ci sono mancati: a Napoli, Menez aveva la febbre e Ranieri si è trovato in emergenza in attacco. Così non è facile».
Come vive il rapporto con Burdisso, un argentino come partner difensivo?
«E’ un grande. Ci parliamo in italiano. Si è presentato con una gran voglia di vincere e la trasmette a tutti. La nostra rivalità è nota ma finisce in campo, quando li affrontiamo con il Brasile. Nei club facciamo gruppo: pensate all’Inter, all’importanza dei sudamericani nella squadra nerazzurri».
Anche la Roma ha vinto l’ultimo scudetto contando su argentini e brasiliani. Come carattere, i vostri rivali storici si fanno sentire di più nello spogliatoio e in partita.
«Vero. Sono fatti così. Ci mettono tanta grinta, si mostrano combattivi. Ma anche noi abbiamo le nostre qualità… Le due nazionali sono tra le migliori da sempre e quindi i giocatori sono spesso il top».
C’è chi pensa che voi brasiliano facciate gruppo, isolandovi dalla squadra. E’ così?
«Succede che ci vediamo di più la sera, andando a cena o comunque frequentandoci. È normale, ma non un abitudine. Nemmeno qui. Io mi trovo bene con tutti, mi piace legarmi ai compagni. Per me conta la Roma, una squadra italiana».
A proposito di rapporti: Julio Sergio e Doni non si salutano. Può essere un problema all’interno del vostro spogliatoio?
«Non lo deve essere. Io non voglio nemmeno stare a dire se è vero o no, ma loro devono rispettare soprattutto la Roma, la società e i tifosi. Quando un calciatore firma un contratto non accetta mica di parlare con tutti compagni: i rapporti non si scrivono. Ma professionalmente non devono pesare sul gruppo».
Siete stati molto vicino a Doni ultimamente.
«Se lo meritava. Ha pagato di tasca sua, in passato, per lasciare il Brasile e giocarsi questa chance a Roma. C’è chi si è già scordato dei suoi quattro anni e di un intervento che lo ha tenuto fuori otto mesi. Doni è stato bravo ad aspettare all’epoca il suo momento, scommettendo su se stesso. Proprio come ha fatto da quando è qui Julio Sergio: se era alla Roma, vuol dire che era portiere all’altezza della situazione. Nessuno di noi fa differenze tra i due».
Il Milan arriva all’Olimpico senza Pato. Ronaldinho, però, è in gran forma. Come bisogna fermarlo?
«Quando sta bene, è dura contro di lui, un autentico fuoriclasse. C’è da preoccuparsi per le sue giocate che agevolano i suoi compagni. Dobbiamo stare attenti a lui, ma anche agli altri. Il Milan è squadra di campioni».